Genitori e “ansia da pappa”: dall’allattamento allo svezzamento
A partire dai 6 mesi un bebè può iniziare a passare dall’allattamento al seno all’alimentazione complementare: ne parliamo con il professor Andrea Vania
Arrivano i 6 mesi e, come indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, il neonato può iniziare a passare dall’allattamento al seno all’alimentazione complementare (comunemente detto “svezzamento”). È in questo momento che per 6 genitori su 10 può subentrare la così detta “ansia da pappa”, provocata dall’erronea convinzione che definire una dieta corretta per i propri figli dipenda solo ed esclusivamente da mamma e papà. A rivelarlo è un’indagine realizzata dal centro ricerche e analisi Edelman Intelligence. Per scegliere gli alimenti e i tempi di inserimento adatti, la maggior parte dei genitori segue pedissequamente le indicazioni del pediatra. Altri optano per l’autosvezzamento, ovvero l’alimentazione complementare a richiesta del bambino. Tra prescrizioni tassative e consigli trovati su internet, la cosa certa è che le mamme e i papà d’Italia faticano a orientarsi.
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Ne abbiamo parlato con il professor Andrea Vania, responsabile del Centro di Dietologia e Nutrizione pediatrica dell’Università La Sapienza di Roma e past president dell’ECOG, l’European childhood obesity group.
- Professor Vania, come mai è così diffusa nei genitori questa “ansia da pappa”?
- Quali sono i segnali che indicano se è arrivato il momento giusto?
- Quanto sono importanti le indicazioni che ci può fornire il pediatra?
- È sbagliato invece offrire al figlio le stesse pietanze che hanno nel piatto gli adulti?
- Mentre nella scelta dei prodotti giusti da acquistare come ci si può orientare?
- Chi decide invece di seguire il metodo dell’autosvezzamento può provocare danni alla salute del bambino?
- Infine, che ruolo hanno i social media e i blog nella diffusione di abitudini scorrette?
Professor Vania, come mai è così diffusa nei genitori questa “ansia da pappa”?
“Quest’ansia è in realtà legata a una convinzione del tutto sbagliata: quella di essere noi genitori a decidere quando il bambino debba iniziare il divezzamento, mentre invece è proprio il bimbo a dare segnali precisi quando è pronto. Talvolta può capitare che il momento arrivi troppo presto rispetto alle indicazioni dell’Oms relative alla durata dell’allattamento al seno, ma può anche accadere di dover aspettare oltre. L’ansia subentra proprio in questo caso, quando arrivati i 6 mesi il bambino non è ancora pronto per iniziare con l’alimentazione complementare”.
Quali sono i segnali che indicano se è arrivato il momento giusto?
“Si tratta di segnali legati principalmente allo sviluppo psicomotorio e relazionale: il bambino deve poter stare seduto da solo, essere in grado di manipolare le cose, e non solo di afferrarle in maniera grossolana, deve aver imparato o almeno iniziato a passare gli oggetti da una mano all’altra e poi alla bocca. Chiaramente non si tratta di azioni finalizzate unicamente all’alimentazione, ma in questo caso è importante che il bimbo le padroneggi”. Deve inoltre mostrare di avere interesse per ciò che gli altri stanno mangiando, cosa che la maggior parte dei bambini fa capire molto chiaramente!”.
Quanto sono importanti le indicazioni che ci può fornire il pediatra?
“Sono importanti, soprattutto in questa fase, quando il pediatra deve indicare le quantità massime corrette dei diversi cibi, la progressione degli alimenti da inserire e la loro qualità. Se però il pediatra adotta un metodo prescrittivo, anziché guidare nella comprensione delle scelte alimentari, queste indicazioni rischiano di apparire al genitore come quelle per la somministrazione di una medicina (“il dottore ha detto 80 g, perciò tu devi finire gli 80 g!”). Il pediatra perciò deve saper spiegare alle mamme e ai papà che non tutti i bambini sono uguali, che all’inizio può esserci un’accettazione dei cibi solidi dovuta alla curiosità innata del bambino, ma dopo due giorni potrebbe tornare a rifiutarli. Magari perché più interessato all’alimentazione degli adulti e vorrebbe mangiare come loro”.
È sbagliato invece offrire al figlio le stesse pietanze che hanno nel piatto gli adulti?
“Non è sbagliato in assoluto, ma è chiaro che è necessario rispettare precise indicazioni nutrizionali. Ad esempio: fino ai 2 anni di vita il sale non va utilizzato, bisogna prestare attenzione alla quantità di proteine, perché i quantitativi di carne necessari a un bambino sono ridotti, così come è bene non offrire cibi fritti, o troppo conditi e speziati. In alternativa però si possono adottare alcune accortezze, come preparare al bimbo piatti visivamente molto simili a quelli dei genitori, pur se preparati a parte ed appositamente per lui”.
Mentre nella scelta dei prodotti giusti da acquistare come ci si può orientare?
“Nella prima fase dell’alimentazione complementare a mio avviso è preferibile utilizzare prodotti dedicati all’infanzia, perché di migliore qualità. Non tanto dal punto di vista nutrizionale, quanto da quello igienico-sanitario, perché le leggi che governano questi alimenti sono molto più restrittive rispetto a quelli destinati all’uso comune”.
Chi decide invece di seguire il metodo dell’autosvezzamento può provocare danni alla salute del bambino?
“È necessario fare chiarezza: l’autosvezzamento non può determinare un danno mortale per il bambino nell’immediato, escluso il rischio di strozzamento nel dosare bocconi da adulti. I danni possono essere, piuttosto, a medio e lungo termine, quindi non percepibili nell’immediato, vedasi di nuovo il rischio di favorire l’obesità, o la ricerca di cibi dolci o troppo salati. Probabilmente, sia questa modalità, che quella classica di divezzamento, hanno un difetto di fondo: nella modalità classica si pone scarsa attenzione agli aspetti psicologici, allo sviluppo cognitivo e relazionale. I rischi principali sono quindi quelli di essere prescrittivi e non elastici, e di non tener conto delle esigenze e dello stadio di sviluppo del bambino. Dall’altro lato, nell’autosvezzamento si rischia di mettere troppo in secondo piano gli aspetti nutrizionali, soprattutto quando i genitori ritengono – e non sono pochi a farlo, ahimè – che il termine auto svezzamento significhi “ghe pensi mi”, cosa che, naturalmente, non è. Bisognerebbe trovare un giusto equilibrio tra i due”.
Infine, che ruolo hanno i social media e i blog nella diffusione di abitudini scorrette?
“Purtroppo hanno un ruolo soprattutto disinformativo, se possibile peggiore della chiacchiera di corridoio, perché i messaggi che diffondono sono amplificati dalla possibilità di raggiungere un numero vastissimo di persone. In genere si tratta di consigli privi di un minimo accompagnamento scientifico e non raramente sono vere e proprie favole metropolitane. Io sconsiglio sempre ai genitori di seguire le indicazioni che leggono sui blog, o comunque di sottoporle al vaglio del pediatra che, soprattutto se si occupa nello specifico di alimentazione infantile, può consigliare scientemente”.