Inappetenza nel bambino, ovvero: il bambino non vuole mangiare
L’inappetenza del bambino, tutto quello che c’è da sapere: quando rivolgersi al medico? Cos’è la neofobia? E l’ARFID? Tanti consigli dai nostri pediatri quando il bimbo rifiuta il cibo.
- Perché è così diffusa la paura che il proprio figlio non si nutra a sufficienza?
- Fino a che età i bambini hanno questa capacità di autoregolarsi con la quantità di cibo da mangiare?
- Quali sono i fattori che determinano questa capacità?
- Basterebbe quindi fidarsi, semplicemente, delle sensazioni del bambino?
- Ma poi è proprio vero che non mangiano?
- Mio figlio non mangia… cosa?
- A volte l’inappetenza non può essere legata a piccoli malesseri?
- 15 Consigli universali se il bambino non vuole mangiare
- E come capire se invece l’inappetenza o il rifiuto a mangiare sta diventando qualcosa di serio?
Potrebbe in effetti iniziare così una storia comune, molto comune, del certo bambino “Pierino” o “Mariolina” i cui genitori arrivano dal medico e un po’ come se dicessero “C’era una volta in un regno lontano…” diranno: “Dottore mi aiuti, il bambino non mangia!”
Il medico premuroso a quel punto chiederà: “Mi spieghi meglio” e così il solerte genitore continuerà il suo racconto: “Vuole solo pasta e latte, quando va bene anche un po’ di carne, ma proprio poca!”, “Lo vede anche Lei che non cresce (o cresce troppo poco …le varianti sono ammesse), glielo dica anche Lei, dottore, che non mangia abbastanza!”.
E con il racconto del genitore il medico inizia a immaginare la dinamica familiare nel momento del pasto: tutti a tavola e si inizia con: “Ma perché non vuoi mangiare? Mangia, se no rimani piccolo. Dai, un boccone per la mamma. Dai, un altro per papà. L’ultimo, l’ultimo, promesso. Ne è rimasto solo uno, finiamolo, dai”.
È questa una situazione davvero molto comune, forse uno dei problemi più comuni di cui i genitori parlano al pediatra, e che, in effetti, può riguardare bambini o ragazzi di tutte le età.
La preoccupazione genitoriale deriva dal fatto che con il passaggio dal latte ai cibi solidi, i genitori perdono quelle piccole sicurezze sull’alimentazione del loro figlio e tendono a farsi prendere dalla preoccupazione che non mangi mai abbastanza.
Perché è così diffusa la paura che il proprio figlio non si nutra a sufficienza?
Secondo il Prof. Vania, responsabile del Centro di Dietologia e Nutrizione Pediatrica dell’Università “Sapienza” di Roma e previous President dell’ECOG, l’European childhood obesity group: “I genitori credono che il bambino, dal momento che è diventato più grande, debba avere per forza di cose più fame e quindi debba mangiare di più. Invece, nella realtà, rispetto al primo anno di vita, il bambino cresce in proporzione meno e ha quindi minori necessità, per cui, per almeno tutto il suo secondo anno, spesso anche per il terzo o parte del terzo, non bisogna cambiare granché le quantità. Questo tra l’altro è facilmente comprensibile se si pensa che nel primo anno di vita il bambino cresce di circa 1 kg al mese. Se continuasse così anche in seguito, quanto dovrebbe pesare da adulto? Una tonnellata? Inoltre, con l’introduzione dell’alimentazione complementare (il vecchio svezzamento o divezzamento) i genitori tendono a non fidarsi più della capacità di autoregolarsi del loro figlio.”
Fino a che età i bambini hanno questa capacità di autoregolarsi con la quantità di cibo da mangiare?
Alcuni studi indicherebbero che tale capacità duri almeno fino ai 5-6 anni.
Quali sono i fattori che determinano questa capacità?
L’autoregolazione sembrerebbe basarsi su 3 elementi:
- le calorie totali acquisite nella giornata;
- le proteine totali della giornata;
- la densità proteica dei singoli pasti, ovvero quanto siano ricchi di proteine.
IN QUESTA DELICATA FASE (quella cioè dell’autoregolazione) BISOGNA STARE ATTENTI A NON TRASMETTERE SEGNALI CONFONDENTI
Ad esempio, forzando il bambino a mangiare, gli si trasmette un messaggio non verbale molto chiaro: tu, bambino, non sai quanto devi mangiare, non devi fidarti del fatto che tu ti senta sazio, ma devi ascoltare chi è più grande di te e le cose le sa.
Ciò è molto pericoloso poiché, oltre a determinare il fatto che il bambino mangi più del necessario, si mina anche la sua autostima e la sua capacità di regolarsi in generale.
Basterebbe quindi fidarsi, semplicemente, delle sensazioni del bambino?
Il Prof. Vania afferma a tal riguardo che: “il momento del pasto è in realtà un momento in cui alcune decisioni spettano al genitore, mentre altre spettano al bambino.
Il genitore deciderà:
- quando si mangia;
- qual è la quantità massima;
- la mancanza di alternative;
- la necessità di accogliere i rifiuti senza farne un dramma.
Il bambino, a sua volta, deciderà:
- se mangiare o meno
- quanto mangiare di quella porzione.
Questo ovviamente implica che, se il bambino non finisce un piatto, è opportuno non dargli nulla se dopo un’ora proclama di aver fame. Solo così può capire che ogni scelta nella vita ha delle conseguenze… Tradotto: ha scelto autonomamente di non mangiare quando il cibo c’era; può tranquillamente “patire” un minimo di fame fino alla merenda o al pasto successivi.
Qualcuno ribatterà che stringe il cuore rifiutare di dare del cibo al proprio figlio, ma bisogna sempre ricordare che fare i genitori comporta prendersi delle responsabilità e darsi e dare delle regole. E le regole si insegnano facendole applicare”.
Ma poi è proprio vero che non mangiano?
La verità è che troppo spesso i bambini più che non mangiare abbastanza è che mangiano male: seguono o comunque tendono a prediligere un’alimentazione il più delle volte estremamente ripetitiva, dove ammettono e gradiscono solo alcuni alimenti (per lo più pasta e carne), e dove ogni tentativo di far accettare nuovi cibi è inutile, se non addirittura controproducente.
Questa monotonia alimentare in genere all’inizio procura molta preoccupazione alle famiglie, ma pian piano cede il posto alla rassegnazione, sostenuta dal fatto che il piccolo comunque cresce.
Ma siamo certi che l’accrescimento (così come l’attenzione, e perfino l’intelligenza) sarebbero le stesse se il bambino-ragazzo non avesse invece una alimentazione più ricca e completa?
Inoltre, se per carboidrati, proteine e lipidi pensiamo di soddisfarne il fabbisogno energetico quotidiano, possiamo dire la stessa cosa per gli oligoelementi, come le vitamine e i sali minerali?
In realtà no, infatti per avere una sana alimentazione gli alimenti devono essere vari ed equilibrati nelle proporzioni perché è questa l’unica possibilità che abbiamo di contribuire alla buona salute attuale e futura dei nostri figli.
Mio figlio non mangia… cosa?
Gli alimenti che più frequentemente vengono rifiutati sono spesso quelli più sani, cioè frutta, verdura e pesce.
A volte si associano a questi rifiuti anche il rifiuto di carne e latticini.
Gli alimenti che invece sono in genere più graditi ai bambini sono pasta, dolci, prosciutto cotto, parmigiano, focaccia e wurstel. Questo però è un tipo di alimentazione che fornisce solo carboidrati, grassi saturi, e proteine animali. Mancano minerali e vitamine, antiossidanti, fibra e grassi “buoni”.
La dieta per essere adeguata, soprattutto nelle fasi dello sviluppo, deve essere il più varia possibile, sia in ambito giornaliero che settimanale.
Va inoltre ribadito che anche alimenti notoriamente sani, come ad esempio lo yogurt, se consumati in eccesso e abusati, se insomma costituiscono il fulcro di un’alimentazione monotona e non vengono considerati invece nell’ambito della sana variabilità possono diventare dannosi, ad esempio semplicemente perché forniscono sufficienti calorie e tanti nutrienti che però tolgono spazio ad altro.
Ricordiamo infine che la sana alimentazione prevede 5 pasti con una distribuzione calorica prestabilita:
- colazione 20%
- spuntino 5%
- pranzo 40%
- merenda 5%
- cena 30%
A volte l’inappetenza non può essere legata a piccoli malesseri?
Certo, capita così anche a noi adulti, di avere cioè in alcuni giorni più fame e in altri di meno, specie quando siamo alle prese con influenze, gastroenteriti, o altri piccoli e passeggeri malanni di stagione. Perché non dev’essere così anche per il bambino? Essere piccoli non vuol dire essere diversi.
15 Consigli universali se il bambino non vuole mangiare
Sono quelli che prevedono di coinvolgere i bambini ogni qual volta sia possibile:
- nel fare la spesa
- nell’organizzazione del menù settimanale che soddisfi, a rotazione, le esigenze di tutti;
- nel farli collaborare nella preparazione dei piatti e della tavola (nel lavare le verdure, nell’infarinare, nell’impastare);
- nel migliorare l’aspetto estetico del pasto (anche l’occhio vuole la sua parte), magari giocando anche sull’accostamento di colori diversi
- nel non esagerare con quantità di cibi proposti (se ad esempio non ama un alimento metterne una quantità esagerata nel piatto non farà altro che spaventarlo)
- nell’offrire loro un clima sereno a tavola;
- nel preparare regolarmente anche alimenti che loro non mangiano, per il piacere del resto della famiglia, senza offrire alternative;
- nel non caricare di troppe aspettative il pranzo;
- nel parlare con gli adolescenti, magari con l’aiuto del pediatra, dell’importanza di una alimentazione completa (come stile di vita che rende “fichi” o “fighi”, a seconda della latitudine, non per la salute futura);
- nel farli mangiare alla mensa scolastica, anche se rimangono a digiuno, senza compensare a merenda questi eventuali digiuni;
- nel farli mangiare sempre a tavola con la famiglia, perché è indispensabile che vedano mangiare e sentano dire “buonissimo, gustoso, come t’è venuto bene!”;
- nel non insistere se rifiutano di mangiare, e nel non proporgli un’alternativa;
- nel non informarsi se a scuola hanno mangiato, questo riporterà nella giusta dimensione il valore del cibo; spesso, infatti, sono le maestre a fornire spontaneamente informazioni;
- nel non sospendere, comunque mai, la frequentazione della mensa scolastica, dato che l’esempio dei compagni può essere miracoloso.
- nel non mostrarsi preoccupati, soprattutto nei discorsi con gli altri, del fatto che mangiano poco;
E come capire se invece l’inappetenza o il rifiuto a mangiare sta diventando qualcosa di serio?
È giusto preoccuparsi quando:
- il mangiare poco si riflette sulla crescita oppure quando
- l’inappetenza dura a lungo
In questi casi è necessario l’intervento del pediatra.
Attenzione però a non banalizzare il problema: infatti se il più delle volte ci troviamo in una situazione di normalità che tende a migliorare e a risolversi spontaneamente è vero anche che in alcuni casi ci troviamo di fronte a vere e proprie manifestazioni di malessere.
Così l’inappetenza può essere:
- legata allo svezzamento
- una disappetenza transitoria causata da febbre e malattie
- espressione di neofobia
- ARFID (Avoidant restrictive food intake disorder, ossia, in italiano il Disturbo Evitante Restrittivo nell’Assunzione di Cibo)
Cos’è la neofobia?
Letteralmente, la neofobia è il rifiuto delle novità, ma in campo alimentare è anche il rifiuto di cibi già noti.
È così diffusa perché ha un’origine genetica determinata dall’evoluzione della specie. La specie umana, come altre specie animali, è composta da neofobici e neofilici: i primi non moriranno mai avvelenati, ma di fame sì; i neofilici, che invece apprezzano le novità, possono morire avvelenati, ma non di fame.
Ci sono periodi della vita in cui la neofobia è anche fisiologica: tra i 2-3 anni prima, e poi di nuovo intorno alla pubertà, ovvero quando il bambino prima e l’adolescente dopo iniziano ad affermare la loro autonomia. Sono periodi passeggeri, anche se hanno una durata non esattamente definibile. Il problema è far sì che non si prolunghino troppo e qui entrano in gioco i genitori.
Se il bambino rifiuta il cibo i genitori che devono fare? E’ meglio forzarlo o assecondarlo?
Né l’una né l’altra cosa. Vale la regola di sempre: i genitori devono decidere che cosa dar da mangiare e la quantità massima di ogni alimento che il bambino può mangiare, d’altro canto il bambino o il ragazzo possono decidere se e quanto mangiare (entro il limite stabilito da genitori). Quindi, se il giovane non vuole mangiare, non vanno proposte alternative, perché sono atteggiamenti come questi che possono far perdurare i comportamenti di rifiuto. D’altra parte, non succede nulla se il bambino salta un pasto. Attenzione però, perché non vanno neanche bene i metodi dei nonni, tipo riproporre lo stesso piatto per giorni finché il bambino non cede: sarebbe un’imposizione altamente diseducativa.
Spiegare che verdura, frutta e pesce fanno bene può far presa su un bambino?
Già… dire, per esempio, che la frutta può aiutare a prevenire il cancro, le malattie cardiovascolari o il diabete, sembrerebbe un argomento utile. Ma tutti gli studi insegnano che purtroppo queste spiegazioni – per quanto logiche siano, e piene di buon senso – non ha presa sugli adulti figuriamoci su bambini e adolescenti, che spesso (fisiologicamente) hanno scarsa concezione del “domani”. Questo è talmente vero che, in realtà, un adolescente che fosse sinceramente preoccupato della sua salute futura dovrebbe essere considerato una fonte di preoccupazione, non di soddisfazione!
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Dalla bollitura alla cottura al forno, un vademecum per preparare le verdure conservando le loro sostanze benefiche.
Come si può aiutare un bambino a superare la neofobia?
L’unica cosa che funziona per superare la neofobia è riproporre i cibi rifiutati, in occasioni successive, come se niente fosse.
In genere, occorrono dalle 10 alle 15 riproposizioni della medesima preparazione (dunque non semplicemente dello stesso cibo), che non devono essere continuative e quotidiane, ma neanche distribuite in un arco di tempo troppo lungo.
Riproporre lo stesso cibo cambiando ricetta può, infatti, da un lato essere utile per avvicinare il bambino a un gusto nuovo, ma dall’altro non garantisce che allora quel cibo piaccia poi sempre, qualunque sia il modo in cui viene presentato, perché ogni preparazione è un caso a sé.
Ci vuole quindi pazienza, perché i risultati non sono quasi mai immediati: i genitori non devono lasciarsi prendere dalla frustrazione né devono mettersi sullo stesso piano del bambino, perché altrimenti diventa una guerra in cui, come Davide contro Golia, quello che vince è proprio il bambino.
Infine, l’inappetenza può anche essere espressione di un cosiddetto ARFID.
Anche l’ARFID? E cos’è?
L’ARFID (Avoidant restrictive food intake disorder) è il disturbo evitante restrittivo nell’assunzione di cibo, un vero e proprio disturbo psichico che si può manifestare in diversi modi e a tutte le età.
È un disturbo caratterizzato da un comportamento molto selettivo nell’accettazione del cibo, sia dal punto di vista della qualità sia da quello della tessitura. I soggetti che ne sono colpiti mangiano, ad esempio, solo alimenti passati o frullati, solo cibi di un determinato colore o, al contrario, non accettano cibi di un determinato colore. Mangiano sempre le stesse poche cose, preparate però sempre nello stesso modo o con pochissime varianti.
Attenzione però a non confondere l’ARFID con la bulimia o con l’anoressia nervosa
I soggetti affetti da ARFID infatti, diversamente da queste altre patologie, non sono interessati al peso corporeo o alla forma fisica, il dimagrimento è una conseguenza del loro comportamento a tavola, non il loro obiettivo.
Le persone affette da ARFID possono aver paura di conoscere alimenti nuovi o, ad esempio, di soffocare con pezzi di cibo, per questo scelgono quelli passati. L’esordio può essere legato a un fenomeno acuto, come una diarrea o una gastroenterite o ancora qualcosa che è andato di traverso, da qui la paura di soffocare o stare male. Se il comportamento viene portato all’eccesso bisogna verificare che non ci sia un vero e proprio problema psichiatrico.
Quali sono i sintomi di questo disturbo?
Sebbene spesso scatenato da un evento acuto non è questa la vera causa dell’ARFID. Spesso, infatti, sottostanno comportamenti ansiosi, ad esempio verso la scuola, la paura frequente di incidenti, comportamenti monotoni in altri campi della vita. L’ARFID può essere parte di un disturbo più grande, fino ad arrivare ad essere espressione di un disturbo dello spettro autistico (comunemente ma impropriamente detto autismo).
E se il rifiuto del cibo di determinati alimenti fosse invece dovuto a semplici capricci?
Secondo la Dott.ssa Caroli, consulente dell’Unione Europea e temporary advisor dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “Non tutte le difficoltà alimentari del bambino sono indice di malattia o disagio. Va tenuto presente che i casi di ARFID sono rari: meno del 20% nei centri che si occupano di persone con disturbi alimentari e ancora meno nella popolazione generale. La difficoltà ad assumere cibi nuovi è fisiologica tra uno e tre anni, per questo motivo i genitori devono accompagnare i bambini e non assecondarli quando rifiutano certi alimenti.”
Non si parla di ARFID nel caso in cui un bambino non ha mai imparato o si rifiuta di imparare a masticare e i genitori lo assecondano continuando a dargli cibo frullato. In questo caso, si tratta di genitori poco autorevoli che lasciano il bambino da solo a prendere decisioni che non è in grado di prendere.
Come si interviene, quando viene diagnosticato l’ARFID? Esiste una cura?
Sicuramente bisogna intervenire con un team multidisciplinare che preveda l’intervento di psichiatra, nutrizionista e terapista della riabilitazione nutrizionale.
Al di là della terapia, ciò che è importante è prevenire comportamenti di questo tipo, insistendo con i bambini perché abbiano un’alimentazione varia. Così come non si può raccontare sempre la stessa storia al proprio figlio, così dobbiamo insegnargli a mangiare cose diverse. Serve avere un comportamento fermo, offrire sempre alimenti nuovi, chiedere che ne assaggino almeno un po’, anche solo una cucchiaiata o forchettata. Solo così si possono evitare deviazioni patologiche da comportamenti alimentari normali.
Domande frequenti
Perché è così diffusa la paura che il proprio figlio non si nutra a sufficienza?
“I genitori credono che il bambino, dal momento che è diventato più grande, debba avere per forza di cose più fame e quindi debba mangiare di più. Invece, nella realtà, rispetto al primo anno di vita, il bambino cresce in proporzione meno e ha quindi minori necessità, per cui, per almeno tutto il suo secondo anno, spesso anche per il terzo o parte del terzo, non bisogna cambiare granché le quantità. Questo tra l’altro è facilmente comprensibile se si pensa che nel primo anno di vita il bambino cresce di circa 1 kg al mese.” Prof. Vania, responsabile del Centro di Dietologia e Nutrizione Pediatrica dell’Università “Sapienza” di Roma e previous President dell’ECOG, l’European childhood obesity group
Se il bambino rifiuta il cibo i genitori che devono fare? E’ meglio forzarlo o assecondarlo?
Né l’una né l’altra cosa. Vale la regola di sempre: i genitori devono decidere che cosa dar da mangiare e la quantità massima di ogni alimento che il bambino può mangiare, d’altro canto il bambino o il ragazzo possono decidere se e quanto mangiare (entro il limite stabilito da genitori). Quindi, se il giovane non vuole mangiare, non vanno proposte alternative, perché sono atteggiamenti come questi che possono far perdurare i comportamenti di rifiuto. D’altra parte, non succede nulla se il bambino salta un pasto.
Cos’è l’ARFID?
L’ARFID (Avoidant restrictive food intake disorder) è il disturbo evitante restrittivo nell’assunzione di cibo, un vero e proprio disturbo psichico che si può manifestare in diversi modi e a tutte le età.
È un disturbo caratterizzato da un comportamento molto selettivo nell’accettazione del cibo, sia dal punto di vista della qualità sia da quello della tessitura.